Il Professore : ... ... Giova ricordare , peraltro , IL Che Personaggio Il proprietario del bene confiscato , in partiture OCCASIONE delle elezioni sosteneva Amministrativo Il Candidato della lista "Rinascita Isolana " Rosario Rappa .

domenica 9 gennaio 2011

I Misteri dell'Addaura

I Misteri dell'Addaura


Doppi servizi. I misteri dell’Addaura
di Ferdinando Imposimato, da lavocedellevoci.it
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Ci furono i servizi segreti e la massoneria nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Quando nel 1984 incontrammo nella questura di Roma Tommaso Buscetta, appena giunto dal Brasile dove era stato arrestato da Gianni De Gennaro, Giovanni Falcone ed io facemmo l’impossibile per convincerlo a raccontare tutto sui legami tra mafia, politica, massoneria e poteri occulti. Ma lui, che pure collaborava a tutto campo, fu irremovibile: «non posso – disse – perchè lo Stato non è preparato ad affrontare un tema così grave che ancora oggi coinvolge persone e istituzioni insospettabili».
Il tentativo di far parlare Buscetta fui costretto ad abbandonarlo, dopo la partenza per Londra e per Vienna. Ma Falcone lo proseguì, sia pure inutilmente. Buscetta non si lasciò convincere, pur avendo grande stima del magistrato di Palermo. Molti uomini delle istituzioni, dei servizi segreti, della politica e del governo del paese, legati a Cosa Nostra, erano saldamente ai loro posti di comando. Solo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Buscetta decise di rivelare i retroscena dei più gravi delitti di mafia e di fare i nomi dei politici, dei massoni e degli uomini dello Stato nemici di Falcone e di Paolo Borsellino.
Oggi capisco che aveva ragione Buscetta: nessuna delle verità che egli rivelò nel corso dei processi di Palermo e di Perugia fu confermata da sentenze di condanna. Le sue testimonianze precise e circostanziate sui legami mafia-politica-massoneria furono disintegrate. Nonostante le decine di conferme di altri mafiosi, che pure erano stati ritenuti attendibili per tutte le altre accuse contro i loro complici per omicidi e stragi. Nel 1992 Buscetta riprese a parlare davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, di cui facevo parte anche io, sia pure in posizione di isolamento, tanto che la mia relazione sull’Alta Velocità non venne mai discussa, neppure dalle commissioni presiedute da Ottaviano Del Turco e da quelle che seguirono.
OCCORSIO E I MASSONI
Ma la rivelazioni di oggi non inducono all’ottimismo. Quelle degli anni ottanta e novanta furono insabbiate. Davanti a due pubblici ministeri di Palermo Buscetta rivelò, nel dicembre 1994: «ad uccidere Borsellino è stata Cosa Nostra, ma le ragioni della strage vanno al di là degli interessi stretti della mafia». Il pentito chiarì che Borsellino stava venendo a conoscenza da Gaspare Mutolo di verità scottanti. Ma di quelle dichiarazioni non si fece nulla; i colpevoli restarono “ignoti”.
A maggio 1993, parlando con il giornalista Raffaele Lo Sardo del settimanale il Sabato sulla strage di Capaci, dissi cose che ancora oggi mi sorprendono. Parlai delle indagini che, come giudice istruttore, stavo conducendo con il pm Vittorio Occorsio su alcuni casi di sequestri di persona. Scoprimmo che alcuni terroristi e criminali erano appartenenti alla massoneria. Non mi resi conto della importanza del collegamento, ma Occorsio sì. E morì. La mia condanna a morte fu pronunciata tre anni dopo. A quel tempo svolgevo anche indagini su Michele Sindona e P2, connesse con quelle di Falcone a Palermo. Ma Falcone era molto più avanti di me: aveva scoperto la loggia Camea di cui faceva parte Pierluigi Concutelli, tessera 4070, assassino di Occorsio.
Del resto, la scoperta della Loggia Camea a Palermo fu l’inizio della fine di Falcone, come egli stesso presagiva. Egli aveva capito che la massoneria era il collante dei vari poteri criminali con la politica e le istituzioni. Venne alla luce che il falso sequestro di Sindona – usato dal banchiere di Dio e dai complici mafiosi per costringere i suoi beneficati a salvare le sue banche – era stato organizzato da Cosa Nostra e da massoni: personaggi, come Joseph Miceli Crimi e Giacomo Vitale erano mafiosi e massoni. Quando mandai a Falcone, per competenza, il processo contro Michele Sindona, contro cui procedevo per simulazione di sequestro, il quadro divenne completo e allarmante.
Ma il pericolo per lui e per me aumentò a dismisura. Non ebbi la percezione di ciò che stava accadendo attorno a me. A raccontarlo al giudice Otello Lupacchini nel 1991 fu il mafioso Antonio Mancini, uomo della banda della Magliana. Costui disse che verso la fine del 1979, in occasione di un incontro conviviale, «in un ristorante di Trastevere, l’Antica Pesa o Checco il carrettiere», assieme a Danilo Abbruciati, a Edoardo Toscano, ai fratelli Pellegrinetti, a Maurizio Andreucci e a Claudio Vannicola, mentre si discuteva del controllo del territorio del Tufello per il traffico di stupefacenti, Danilo Abbruciati parlò ai commensali «di un attentato alla vita del giudice Ferdinando Imposimato». Dal discorso di Abbruciati – spiegò Mancini – si capiva che non si trattava di un’idea estemporanea: era evidente che erano stati effettuati dei pedinamenti nei confronti del magistrato e della moglie; che erano stati verificati i luoghi nei quali l’attentato non avrebbe potuto essere eseguito con successo.
«Quando sentimmo il discorso che si fece a tavola, io e Toscano pensammo che l’attentato dovesse essere una sorta di vendetta per l’impegno profuso dal magistrato nei processi per sequestri di persona da lui istruiti e che avevano visto coinvolti i commensali, i quali parlavano del giudice Imposimato definendolo “quel cornuto che ci ha portato al processo”». «Successivamente – chiarì Mancini – parlando dell’attentato ai danni del giudice Imposimato, Danilo Abbruciati mi spiegò che, al di là delle ragioni personali che pure c’erano, aveva ricevuto una richiesta in tal senso “da personaggi legati alla massoneria”, dei quali il giudice Imposimato aveva toccato gli interessi».
Così verbalizzò Mancini al giudice istruttore Lupacchini.
DUE AGENTI DEI SERVIZI
In seguito, durante le indagini su Giulio Andreotti per l’omicidio di Mino Pecorelli, il procuratore della Repubblica di Perugia accertò che alla riunione, nel corso della quale si era parlato dell’attentato a me, avevano partecipato due uomini dei servizi segreti militari di cui Mancini fece i nomi: incriminati e rinviati a giudizio per favoreggiamento nel processo Andreotti.
Senonchè i due mi avvicinarono prima della sentenza dicendomi che «loro due non c’entravano niente con quella riunione» e che «c’era stato uno scambio di persone da parte di Mancini, altri due uomini del servizio avevano preso parte a quell’incontro in cui era stata decisa la mia condanna a morte». Ovviamente non riuscii a stabilire chi fossero i due agenti segreti partecipi della decisione. Restava il fatto che c’era stato un summit tra agenti segreti e mafiosi della Magliana per eliminare, su ordine della massoneria, il giudice che istruiva il processo Moro.
Quanto a Falcone, era assediato da sospetti infondati, propalati ad arte da mafiosi e loro alleati. Era addirittura accusato di favorire i pentiti che collaboravano con lui. Fu inquisito dal Csm, che lo interrogò sulle sue “inerzie”. L’accusa era di non avere, nonostante le prove – che non c’erano – arrestato alcuni imprenditori vicini a Cosa nostra. Falcone lasciò gli uffici di Palermo e si trasferì a Roma, alla direzione degli Affari Penali. Ma il “vizio” di indagare su mafia e massoneria non lo abbandonò.
Ad una domanda del giornalista del Sabato sulle inchieste di Falcone, risposi: «Falcone è stato ammazzato per quello che aveva fatto, che stava facendo e che voleva fare: contro i tanti poteri occulti intrecciati ai poteri collegati, usando la Procura Antimafia, che era una sua creatura». Domanda di Lo Sardo: «Per esempio?». Risposta: «L’Italia è anche il paese della strategia della tensione, dello stragismo e di Gladio: ci sono tante pagine di verità ancora da scrivere. Se ripercorriamo certi sentieri, possono aprirsi squarci di luce sulla storia recente e passata». Domanda: «Vuol dire che Falcone voleva occuparsi anche di Gladio?». Risposta: «Sì, voleva occuparsi anche di Gladio». Domanda: «Come fa ad affermarlo?». Risposta: «Conoscevo Giovanni Falcone. Sono stato suo amico fraterno e collega per vent’anni. So bene come la pensava su queste cose».
MISTERI NEL SEGNO DI GLADIO
Gladio significava Servizi segreti guidati dai piduisti Giuseppe Santovito e Giulio Grassini, voluti, nel gennaio 1978, da Francesco Cossiga, ministro dell’interno, e Giulio Andreotti, presidente del consiglio. Che avevano inserito affiliati alla P2 ai vertici dei ministeri, sostituendo funzionari leali come il prefetto Gaetano Napoletano e il questore Emilio Santillo.
Ma la morte di Falcone ebbe una accelerazione dopo la lettera dell’8 novembre 1982 al presidente della Commissione P2, Tina Anselmi.
«Con riferimento alla nota n. 850 /c P2 del 15 ottobre 1982, pregiomi comunicare che nel corso di indagini su organizzazioni mafiose siciliane, è emerso che alcuni personaggi, appartenenti a cosche mafiose, avevano operato per il trasferimento di Michele Sindona da Atene a Palermo nell’agosto 1979: trattasi di Giacomo Vitale e di Francesco Foderà, entrambi latitanti. Costoro fanno parte della nota Loggia Camea, il cui capo è il dott. Gaetano Barresi, arrestato su mandato di cattura dei giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo».
Paolo Borsellino, al momento della sua morte, stava proseguendo la ricerca della verità iniziata assieme a Falcone sugli stessi temi scottanti.
Sono trascorsi venti anni da allora. Ercole Incalza, da me denunziato nella relazione sulla Tav per la questione dei grandi appalti a Cosa nostra e alla camorra, ha fatto carriera. Mentre si riparla delle stesse indagini compiute da Falcone e Borsellino. E apprendiamo – ma lo si sapeva da allora – che la strage dell’Addaura, organizzata da mafia e agenti nemici di Falcone, fu evitata grazie al coraggioso intervento di due uomini fedeli a Falcone: Nino Agostino, che scoprì collusioni tra poliziotti e mafiosi, ucciso assieme alla moglie; e Emanuele Piazza, collaboratore del servizio segreto civile, strangolato il 15 marzo 1990, pochi mesi dopo l’attentato dell’Addaura. Una infinità di depistaggi e di omicidi impedirono l’accertamento della verità, quella verità che ancora oggi, nonostante il bel libro di Attilio Bolzoni e la coraggiosa inchiesta di Annozero, stenta a venir fuori.
(10 giugno 2010)


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