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domenica 9 gennaio 2011

La sindrome del perdente radicale che mette i pm l'uno contro l'altro

La sindrome del perdente radicale che mette i pm l'uno contro l'altro

La diversa strategia di Caselli e del suo successore Grasso un nuovo metodo investigativo che ha lacerato la Procura


di GIUSEPPE D'AVANZO

PALERMO - La procura di Palermo è stata a lungo la scena di ostilità furiose, contese senza sconti, profonde fratture nel corpo dello Stato. E tuttavia, in due decenni, la parola odio non l'ho mai udita evocata, quasi rivendicata, come il sentimento più autentico che separa irrimediabilmente un procuratore dall'altro.

L'odio che oggi, a Palermo, allontana - per semplificare - i protégés di Gian Carlo Caselli e la tribù di Pietro Grasso appare tanto più grave perché le due consorterie non si attribuiscono reciprocamente interessi storti o acquiescenze sospette. Nessuno cede alla tentazione di mascariare (sporcare) l'altro con le consuete insinuazioni che sono merce corrente nell'Isola: quello lì cammina a braccetto con...; quell'altro è figlioccio di... Gli uni degli altri dicono: "Sono persone per bene". Perché, allora, questo giudizio non diventa sufficiente per trovare un accettabile compromesso al loro inesorabile contrasto? Qual è la ragione così ostinata che li costringe, in segreto, a mangiarsi vivi come scorpioni nella bottiglia?

La verità è che, nel duello, è in discussione - al di là dei caratteri, delle culture, delle ambizioni personali, delle idiosincrasie - una questione decisiva, la risposta alla domanda: che cos'è la mafia? Una società segreta o un network di relazioni? È popolare o borghese? È soltanto violenza "militare" o soprattutto concertazione sociale, politica, economica? Soprattutto: è un potere onnipresente in grado di dominare tutte le altre forme di regolamentazione statale o è soltanto una delle forze "sociali" che agisce nel territorio dell'Isola riproducendosi come muffa, in forme parassitarie, nell'ombra umida dell'esercizio del potere? E quindi, una volta definita che cos'è la mafia, quale nome criminale assegnare alla rete di relazioni e con quale responsabilità penale punire i confini dove quei mondi si incontrano? Quale deve essere l'obiettivo specifico della lotta a Cosa Nostra?
Si sa che cosa è stato il processo contro Giulio Andreotti voluto da Gian Carlo Caselli e dai suoi più stretti collaboratori (Guido Lo Forte, Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia). Fu il tentativo, per usare la formula di un storico come Salvatore Lupo, di rappresentare una coincidenza tra la gerarchia del potere ufficiale e la piramide del potere criminale o "meglio la raffigurazione di un'unica gerarchia del potere che tutto controlla e tutto decide, opportunamente sintetizzata nelle figura del maggiore e più discusso leader politico italiano". Un mondo di moltissimi burattini e di pochi burattinai artefici di una storia fatta essenzialmente di complotti, assassinii, trame, affari illeciti. Aggredire questo monstrum, disarticolare il "gioco grande" (la definizione è di Scarpinato), imponeva radicalismo interpretativo del fenomeno mafioso, forte intensità etico-politica, strumenti normativi efficaci, una diffusa indignazione popolare, quasi l'assegnazione di una delega a sbarazzarsi del fondo fangoso della Prima Repubblica.




Gli ingredienti ci sono tutti dal 1993 al 1999 e i successi sono straordinari. Caselli li ricorda spesso. 650 ergastoli. 8826 persone indagate per mafia, 3238 rinviate a giudizio. Beni per diecimila miliardi di lire sequestrati ai mafiosi. Buona parte dell'élite dirigente di Cosa Nostra con i ceppi ai polsi dopo decenni di latitanza. Totò Riina. Leoluca Bagarella. I tre fratelli Graviano. I quattro fratelli Madonia. I quattro Ganci, i due Brusca e Pietro Aglieri e Vito Vitale... Quando la Procura di Caselli lavora agli intrecci di Cosa Nostra con le aree visibili e formalizzate del potere - l'economia, la politica, le istituzioni - l'interpretazione del fenomeno e l'iniziativa penale mostrano le prime, rilevanti scuciture. Regole fluttuanti (come i riscontri necessari per le testimonianze dei "pentiti") e fonti fluide (come il concorso esterno in associazione mafiosa) rendono in avvio onnipotenti le azioni della procura di Palermo.



Ma alla resa dei conti, in aula, molte accuse si sbriciolano con esiti che dovrebbero imporre un ripensamento. Dovrebbe, per dire, preoccupare l'assoluzione di Francesco Musotto. È solo un esempio. Eletto presidente della provincia di Palermo, Musotto viene arrestato con l'accusa di mafiosità. Come è giusto che sia, non lo protegge lo status politico, ma con l'imputato assolto, dal primo grado alla Cassazione, il "caso" dovrebbe sollecitare una riflessione critica nei procuratori perché appare avventuroso - o addirittura pericolosamente autoritario - che un potere dello Stato persegua con prove inadeguate un altro potere legittimato dalla volontà popolare e annientato da un'iniziativa che, alla prova del giudizio, si mostra avventata.



Lo schema rende fragile e risentito il potere politico e molto influente (nei preliminari) l'iniziativa giudiziaria. Crea un'asimmetria che pregiudica un corretto equilibrio istituzionale. Provoca quella perenne ostilità tra magistratura e politica che, senza riuscire a dare più trasparenza al potere, danneggia soltanto la credibilità degli antagonisti e delle istituzioni. Caselli e i suoi non sembrano comprendere la questione.



Appaiono interessati soprattutto a difendere il loro lavoro. E' vero, le assoluzioni ci sono state, dicono, ma "secondo lo schema tipico dell'insufficienza di prova" in un ribaltamento semantico dove l'insufficienza di prova svela la sostanziale colpevolezza dell'imputato assolto e non l'originario deficit dell'accusa. Non poteva durare. Forse lo comprende anche Caselli che non attende la conclusione del processo contro Andreotti e lascia. Il suo successore, Pietro Grasso, si muove in una tempèrie rovesciata. Per dirla con Emanuele Macaluso, l'indiscriminata indignazione è diventata sfiducia indiscriminata, la delega passività, l'uso e l'abuso catartico di alcuni strumenti investigativi (pentiti, innanzitutto) ne ha compromesso l'utilizzo mentre, come accade ciclicamente, nella società civile isolana è riaffiorata "una richiesta di mafia" (la fortuna politica di un Totò Cuffaro che contratta, in un retrobottega, il tariffario sanitario regionale con Michele Aiello, probabilmente un prestanome di Bernardo Provenzano, è uno dei possibili connotati di quella "voglia di mafia").



Ogni manovra giudiziaria postula un'economia, una strategia, un modello culturale. Grasso è costretto a rinnovarle. Sembra credere che un'interpretazione della mafia come "superpotenza della storia siciliana" sia una semplificazione che può indurre in molti errori. Intuisce che il "modello Provenzano" sia il ritorno a una concezione più modesta del ruolo di Cosa Nostra così efficace da riuscire nell'impresa non scontata e inedita di controllare i conflitti interni. Progetta con i suoi collaboratori (Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Maurizio De Lucia) un lavoro più pragmatico. Ignora dunque le suggestioni del "gioco grande". Capovolge il metodo. Preferisce concentrarsi realisticamente sugli indizi a disposizione, per ordinari e grossolani che siano. Percepisce che la chiave di volta può essere la "cattura" di Bernardo Provenzano.



L'intuizione è felice. La "caccia" permette di mandare per aria quel che resta dello "stato maggiore" dell'organizzazione e alla fine di arrestare anche Provenzano (oggi solo un boss e mezzo guidano Cosa Nostra: Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo). L'inversione metodologica, mai accettata dai procuratori vicini a Caselli, lacera irrimediabilmente la sempre precaria coesione dell'ufficio dove si fa largo l'antico topos retorico (italianissimo) dell'"occasione perduta", lo scoramento e il lamento per una specie di "Resistenza tradita".



La procura di Palermo comincia ad essere abitata da "un cupio dissolvi", da "una vertigine della sconfitta" che sottovaluta, dimentica, quasi nega gli straordinari risultati raggiunti negli ultimi tre lustri. Più che onorare i colpi di maglio assestati a una Cosa Nostra ridotta oggi maluccio e magari progettare l'assalto definitivo, i procuratori (molti di essi) si lasciano avvilire (ancora Salvatore Lupo) dalla "disillusione nei confronti della Seconda Repubblica e dal carattere ambiguo che in essa ha assunto il rinnovamento etico-politico": il governatore Totò Cuffaro, i suoi comportamenti, il suo solido e radicato sistema di potere e di alleanze, ne è l'emblema più chiaro.



L'odio che divide i procuratori di Palermo nasce - credo - da questo senso di impotenza, dallo scontento per il presente, dalla delusione di chi si concentra sui mali che restano perché "quanto più negativo scompare dalla realtà, tanto più irritante diventa il negativo residuale". Si può dire che "la sindrome del perdente radicale" si è impossessata di quell'ufficio. Come il perdente radicale descritto da Hans Magnus Henzensberger, il tarlo ossessivo che tormenta oggi i procuratori di Palermo è "un confronto che perpetuamente si risolve a loro sfavore".



E' vero, hanno cacciato in galera l'intera catena di comando di Cosa Nostra, oggi i picciotti sono costretti per rimettersi in sesto a chiedere l'aiuto degli odiati "americani" espulsi dall'Isola negli anni ottanta, e tuttavia nulla è mutato davvero nella società e nella politica siciliane. Perché?, si chiedono i pubblici ministeri. Di chi è la colpa? Perché quell'umiliazione che avvertono come una sconfitta esistenziale? Perché nessuno si cura di quel fallimento? Perché sono solo "affari loro"? Come accade al perdente radicale - che non è il fallito (che si rassegna alla sua sorte), non è la vittima (che chiede soddisfazione), non è il vinto (che si prepara alla prossima battaglia) - c'è una sola strada per sciogliere quel dilemma: "la fusione di distruzione e autodistruzione, di aggressione e di autoaggressione". È quel che sta accadendo alla procura di Palermo. L'odio "fratricida" che oggi l'attraversa è soltanto il sintomo della catastrofe che s'annuncia.

Fonte La repubblica
 


(25 ottobre 2007)

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